I "BIAS KILLER" negli assessment

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In ambito tessile, c’è un modo di procedere o tagliare seguendo una direzione obliqua rispetto alla trama principale del tessuto che in Provenza è detto “biais”.

 
 BIAS negli assessment image
 

Non diciamo altro per evitare di portare il discorso chissà dove.

Quella pratica dev’essere parsa talmente evocativa ad alcuni psicologi anglofoni – difficile immaginare come i loro interessi professionali si siano accostati alle metodologie di un settore tanto distante – che decisero di aggiungere il termine nel loro lessico (parzialmente scremato dalle “i”) come perfetta metafora di ciò che spesso avviene nella nostra mente durante i processi decisionali: i “bias” cognitivi, esplorati in modo significativo solo dagli anni 70, soprattutto dagli psicologi Daniel Kahneman e Amos Tversky, sono i pregiudizi che determinano deviazioni dalla razionalità nelle opinioni, nei giudizi e, dunque, nelle decisioni.

Ma a noi cosa ce ne… E invece ce ne dovrebbe… perché il processo di assunzione spesso viene minato da pregiudizi involontari – tanto positivi quanto negativi – che possono alterare la percezione delle qualità dei candidati, rendendo più arduo il compito di selezione. E non c’è da risentirsi, poiché i bias si formano a livello inconscio e nessun essere umano ne è totalmente immune. Neanche chi li conosce tutti (e sono davvero tanti). Un po’ come quando bevi dell’acqua dopo aver mangiato i carciofi. Sai benissimo che l’acqua è, diciamo, “insapore” e che quella dolcezza che avverti è dovuta a sostanze contenute nei carciofi che ingannano le papille gustative. Eppure in quel momento il cervello ti dice che l’acqua è dolce.

Gli assessment bias sono distorsioni cognitive meno ovvie e possono influenzare le decisioni al punto di sfavorire candidati meritevoli il cui talento, per svariati motivi, potrebbe essere sminuito. Può succedere anche il contrario. Il bias di similitudine, ad esempio, può creare una preferenza non giustificata per candidati che condividono con il recruiter somiglianze in termini di background, interessi o altre caratteristiche personali. E ce ne sono anche di più infidi, come il bias di conferma, che è la tendenza a cercare, interpretare o dare peso a informazioni che confermano le proprie aspettative preesistenti. Esempio molto realistico degli “scherzi” che possono fare i bias in sede di valutazione è il film “La parola ai giurati” (1957). Anche se non lo hai visto, il titolo ti lascia immaginare di cosa stiamo parlando.

Come accennato, quando si parla di scivoloni di questo tipo, non esistono suole anti buccia di banana. E a parte stare attenti a dove si mettono i piedi – vale a dire sapere come funzionano i bias e imparare a riconoscerli – c’è poco altro da fare. A meno che non si decida di cambiare approccio. Nella dimensione del recruitment, infatti, un modo innovativo che può davvero fare la differenza è adottare strumenti di assessment che usano la gamification per rendere il reclutamento più equo e imparziale.

Dato che ci piace attingere alla cultura cinematografica, nel film “The Imitation Game” (2014), basato sulla storia vera di Alan Turing e del suo team durante la Seconda Guerra Mondiale, il protagonista seleziona i membri del suo team tramite un complicato cruciverba (un gioco!), cercando persone con competenze uniche, nonostante le resistenze dei dirigenti militari, inconsapevolmente fuorviati dai bias.

Il “giochetto”, si fa per dire, funziona alla perfezione anche nella dimensione reale. E l’uso di strumenti che introducono elementi ludici nei processi di assessment può essere un potente antidoto contro i bias. I nostri Web InBasket e Business Game, ad esempio, sono giochi progettati per far emergere e mettere a fuoco le competenze e le abilità effettive dei candidati, lasciando fuori campo le caratteristiche irrilevanti.

Ciò è fondamentale, perché una selezione più oggettiva porta a team più diversificati. E l’eterogeneità, in azienda, promuove creatività e innovazione, come evidenziato da McKinsey & Company nel loro report “Diversity Wins” (2020). Lo studio mostra come le aziende con maggiore diversità di genere ed etnica superino significativamente le concorrenti in termini di performance.

Prima di concludere, facciamo un piccolo, doveroso passo indietro. Perché è facile prendersela con i recruiter. Ma che dire dei candidati? Anche loro possono sviluppare percezioni preconfezionate sul conto degli HR che si trovano di fronte, basate su esperienze passate o su stereotipi. E come la giri giri la frittata, il risultato è sempre lo stesso. Gli assessment game minimizzano questo effetto, focalizzando l’interazione su attività oggettive e non su dialoghi potenzialmente carichi di pregiudizi.

Lo si vede già adesso, nel futuro del recruitment ci sarà un crescente ricorso alla gamification per garantire processi di selezione sempre fruttuosi. Aziende come Google e P&G lo stanno già facendo, riscuotendo risultati positivi in termini di riduzione dei bias e miglioramento della qualità delle assunzioni.

In conclusione, la gamification offre un’opportunità unica per rivoluzionare questo settore, eliminando i bias inconsci e promuovendo una cultura aziendale più inclusiva. E le aziende che adottano questo approccio non solo mirano a migliorare i loro processi di assunzione ma contribuiscono attivamente alla creazione di un ambiente di lavoro equo e stimolante.